“Fai così perché non te ne frega niente”
“Non ti impegni abbastanza, sei pigro”
“Suo figlio non ha voglia di fare niente”
Quante volte abbiamo detto queste frasi? Quante volte le abbiamo sentite rivolte a noi?
Molto spesso si tende a etichettare il comportamento di qualcuno che non fa quello che vorremmo (o che ci aspetteremmo) come pigrizia o menefreghismo.
E se ci fossero altre spiegazioni possibili?
Ma perché se il nostro compagno non fa le faccende domestiche di sua iniziativa è pigro, lo studente con un basso rendimento scolastico ci appare “una causa persa”, l’amico che non si fa sentire da un po’ se ne frega di noi?
Facciamo un passo indietro e proviamo a considerare la cornice entro cui ricade il nostro ragionamento.
Potremmo dire che abbiamo perlomeno due alternative:
C’è una realtà oggettiva che fa da sfondo alle dinamiche relazionali. In questo caso o il mio punto di vista è quello giusto, e quindi l’altro ha torto, o viceversa. Ne consegue che, se ho ragione io, il tuo non fare le pulizie significa che sei pigro e questo non è accettabile. Oppure ho torto, sono una maniaca delle pulizie e quindi non è colpa tua, sono io che mi devo rilassare
Ognuno di noi è un mondo unico, con le proprie emozioni, opinioni, categorizzazioni valoriali; di conseguenza non c’è un giusto e uno sbagliato, non esiste uno standard oggettivo e la risoluzione del conflitto avviene all’interno dello scambio relazionale. Tornando all’esempio di prima, per ciò che io considero “pulito”, tu non fai abbastanza, ne sei consapevole e non te ne curi. Dal tuo punto di vista invece due piatti sporchi nel lavandino non corrispondono a ciò che tu definiresti come “sporco” e di conseguenza sentirti accusato di menefreghismo ti ferisce. Chi ha ragione?
Non mi sento di affermare che un’alternativa sia più giusta dell’altra, trovo però che sia più interessante esplorare la seconda in quanto per me più utile nella gestione dei conflitti relazionali.
Se prendiamo per buono che ognuno di noi vive le cose dal proprio lato della relazione, in che modo cambia la nostra prospettiva, quali sono le implicazioni?
L’insegnante vede uno studente svogliato e disinteressato. Per lui è frustrante perché fa di tutto per rendere le sue lezioni interessanti e trovarsi di fronte degli sguardi assenti è svilente.
Dal canto suo lo studente “svogliato” potrebbe adottare quel comportamento per nascondere una gran paura di fallire?
Quando si ha la sensazione che nessuno creda in noi possiamo anche decidere che è meglio lasciar perdere perché tanto non abbiamo nessuna possibilità di riuscita.
Abbiamo provato a calarci nei panni nell’altro e forse ha generato in noi alcune domande nuove. Ma niente paura, così come il nostro partner/figlio/amico forse non è un menefreghista, da parte nostra noi non siamo superficiali o egoisti per averlo pensato! Mettersi nei panni dell’altro è faticoso e richiede delle risorse che a volte non abbiamo: perché ci sentiamo feriti o arrabbiati, perché non sempre è facile capire cosa passa per la testa delle persone o anche solo perché siamo stanchi. L’altro può avere tutte le ragioni del mondo per fare quello che fa, ma io mi sento colpito su aspetti per me rilevanti e ci soffro comunque!
Ed è qui che, decidere in quale delle due cornici vogliamo inquadrare la questione, fa la differenza.
Se deve esserci per forza qualcuno che ha torto e qualcuno che ha ragione, comprendere quello che fai e perché lo fai, mi obbliga a negare i miei sentimenti a riguardo. Ma se io parto dal presupposto che siamo due mondi che si incontrano, posso dire “ok, io ho capito il tuo mondo, tu hai capito il mio, cosa possiamo fare di diverso, insieme, per creare un terzo mondo che tenga conto di tutte le variabili in gioco?”
Che ne pensate?